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 news        31/07/2003               
 
Non si protegge la competitività invocando il protezionismo
Sulla perdita di competitività un Rapporto della Commissione di Bruxelles ha aumentato l'allarme: in Europa si è ridotta dei 14 per cento in un anno, ma Francia e Germania migliorano, Italia e Spagna peggiorano. L'apprezzamento dell'euro ' ha comportato un peggioramento dei costi per i produttori pari a circa il 3,5 per cento nel secondo trimestre del 2003. Questo spiega sia le preoccupazioni delle imprese sul fronte delle esportazioni, sia l'insistente richiesta tedesca alla Banca centrale europea di ridurre i tassi sull'euro. Il deterioramento relativo dell'Italia corrisponde a un tasso d'inflazione sempre più elevato della media europea, fonte addizionale di perdita di competitività. Un aspetto che continuiamo a trascurare con beata incoscienza
Per darne soltanto un esempio fra molti, anchhe più gravi nel ragionamento (se così si può dire), proprio in questi giorni i sindacati hanno chiesto di riferire il «tasso programmato di inflazione» ‑qualcosa che si dovrebbe comunque eliminare ‑ non più a quella italiana; bensì a quella europea. Così perderemmo ancora di più. Ma lo stesso allarme che ci viene da Bruxelles sembra riflettere, su scola europea, un concetto di (pretesi) ricuperi di competitività in termini puramente monetari, mediante svalutazioni o, in questo caso, rivaIutazioni frenate. Precisamente l'esperienza alla quale l'Italia ha fatto tanto illusorio e negativo ricorso in passato, con effetti strutturali devastanti sulla produttività e sulla crescita. Un'ottica che, anche per altri e disordinati aspetti, sembra oggi destare inquietanti nostalgie. Quello della competitività è un tema di gravità estrema, che pervade l'insieme delle nostre prospettive economiche e sociali. Da un arresto o meno del suo preoccupante declino dipenderanno la ripresa a breve o medio termine, il rilancio della crescita, i livelli di occupazione e le stesse possibilità di protezione sociale. Gli effetti saranno alla lunga irreversibili. Ma non sembra che la questione sia avvertita

in tutte le sue implicazioni, nonostante la sua evidente (e dovremmo dire drammatica) urgenza. Ciò che soprattutto preoccupa è la contraddittoria confusione di idee, di principi e di interessi che dominano la scena: in mancanza, peraltro, di un autentico, serio e responsabile dibattito. In termini generali, ma pressanti e «reali» (non «monetari»), il problema della nostra competitività è stato posto ultimamente sotto angolazioni diverse dal ministro Tremonti, dal governatore Fazio e dal presidente della Confindustria, D'Amato, sullo spartiacque di un «declino» industriale ed economico del nostro Paese. Tremonti lo nega, e non gliene mancano gli argomenti (sia per l'ottimismo della volontà che per il pessimismo della ragione). La vitalità di tante nostre imprese, in certi settori e in molti «distretti», è un dato di fatto, ma soprattutto è un

patrimonio di risorse da accrescere, mobilitare e sostenere. La competitività richiede il presidio di regole nel commercio che, dalla Cina all'Est europeo, faticano a costituirsi: per non parlare del costo del lavoro e delle reti di protezione sociale. Dalla proprietà intellettuale ai marchi, dall'elettronica al tessile, dai vini ai prosciutti e ai formaggi (celebri o meno), l'Europa del mercato unico ma delle difese esterne, deve mettere le carte in tavola. Fazio e D'Amato differiscono invece sul ritmo del declino legato alla perdita di competitività, premesso che in tutte le classifiche dei Paesi sviluppati ci troviamo agli ultimi posti e perdiamo posizioni. In termini geologici, al lento ma continuo «bradisismo» rilevato dal primo risponde il rischio di un «crac» improvviso evocato dal secondo. Ma le antitesi non sono così nette: il primum vivere di Tremonti e le sue condizioni non ignorano certo la minaccia, così come i terremoti cronici di S. Francisco non esorcizzano l'incubo dei big one. Forse perché abbiamo almeno la fortuna di non stare proprio seduti sulla faglia di San Andreas, la nostra frattura ce la scaviamo da noi, al limite di due «zolle» in inesorabile collisione. Preoccupano, a livello politico, le ricorrenti tentazioni protezionistiche e statalistiche: aggraverebbero irreparabilmente, il declino, accelererebbero la perdita di competitività, impoverirebbero il Paese.

Mentre la Fiat si ristruttura e i suoi concorrenti fanno gimcane nel prato di casa, i sindacati ottengono dal giudice l'«immediato rientro» nello stabilimento di Arese delle linee produttive trasferite a Mirafiori in aprile. Questo i sindacati. Ma gli altri? Forse troppi, in Italia, non hanno capito, né hanno dimenticato. Invece, l'unica via di salvezza è quella delle riforme, delle liberalizzazioni e delle autentiche privatizzazioni.



Mario Talamona
IL GIORNALE

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